Anche se non ce lo dicono abbastanza, anche se ce lo dimentichiamo spesso, noi, per lo più, pensiamo con il corpo. E’ il corpo che capisce, riconosce e magari prova un’allegria improvvisa e vera. Oppure – naturalmente - disperazione.
Stamattina, per esempio, dopo aver preso la bella pioggia dell’autunno, appena sono entrata in classe mi è proprio scappato da ridere ed avrei continuato a farlo per qualche minuto, se non avessi dovuto contenermi. Perché non è che una può entrare in una classe, guardare i suoi alunni, e mettersi a ridere -ma come si permette.
Il fatto è che non ero mica io a ridere, era il mio corpo, che rideva da solo. Erano gli occhi, per lo più, che riconoscevano la luce, gli oggetti (la lavagna lunga!) e tutti voi, erano i sensi che percepivano lo spazio. Mi è scappato da ridere per la contentezza di svolgere il mio mestiere, se proprio avete curiosità di saperlo (si fa per dire), perché gli occhi e si sensi hanno ricordato quelli che ormai sono giorni belli e passati, altre classi, altre ragazzi e altre ragazze, ormai lontani, ormai qualcuno pure con figli, mariti o mogli, divani in pelle e mutui da pagare; gli occhi hanno ricordato e provato una tenerezza allegra, una gioia frizzantina, ecco.
Ma guarda, ancora qua. La stessa luce, la stessa posizione dei banchi, gli stessi quaderni e diari, lo stesso futuro giovane e tutto squadernato davanti; qua mentre fuori piove, un sabato mattina insieme a loro a parlare di letteratura.
Da due anni quasi nessuno sale più in questa ala di scuola, e da due anni avevo dimenticato questa classe; quando poi oggi l’ho ritrovata, ho percepito la sensazione fisica di quanto sia bello questo mio mestiere.
P.s. il titolo del post, è il verso di una canzone.
sand creek... se così si scrive, bella canzone
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