sabato 20 novembre 2010

Sognai talmente forte, che mi uscì sangue dal naso


Anche se non ce lo dicono abbastanza, anche se ce lo dimentichiamo spesso, noi, per lo più, pensiamo con il corpo. E’ il corpo che capisce, riconosce e magari prova un’allegria improvvisa e vera. Oppure – naturalmente - disperazione.
Stamattina, per esempio, dopo aver preso la bella pioggia dell’autunno, appena sono entrata in classe mi è proprio scappato da ridere ed avrei continuato a farlo per qualche minuto, se non avessi dovuto contenermi. Perché non è che una può entrare in una classe, guardare i suoi alunni, e mettersi a ridere -ma come si permette.
Il fatto è che non ero mica io a ridere, era il mio corpo, che rideva da solo. Erano gli occhi, per lo più, che riconoscevano la luce, gli oggetti (la lavagna lunga!) e tutti voi, erano i sensi che percepivano lo spazio. Mi è scappato da ridere per la contentezza di svolgere il mio mestiere, se proprio avete curiosità di saperlo (si fa per dire), perché gli occhi e si sensi hanno ricordato quelli che ormai sono giorni belli e passati, altre classi, altre ragazzi e altre ragazze, ormai lontani, ormai qualcuno pure con figli, mariti o mogli, divani in pelle e mutui da pagare; gli occhi hanno ricordato e provato una tenerezza allegra, una gioia frizzantina, ecco.
Ma guarda, ancora qua. La stessa luce, la stessa posizione dei banchi, gli stessi quaderni e diari, lo stesso futuro giovane e tutto squadernato davanti; qua mentre fuori piove, un sabato mattina insieme a loro a parlare di letteratura.
Da due anni quasi nessuno sale più in questa ala di scuola, e da due anni avevo dimenticato questa classe; quando poi oggi l’ho ritrovata, ho percepito la sensazione fisica di quanto sia bello questo mio mestiere.


P.s. il titolo del post, è il verso di una canzone.

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